Vallate alpine e pupù di wombat

Googlando “Tasmania”, il Monte Cradle domina la scena nella maggioranza dei risultati di ricerca.

La spettacolarità della montagna con la sua vetta frastagliata vale la visita al parco e ai sentieri che lo attraversano. Grazie agli specchi d’acqua glaciale che sorgono sotto il monte, Dove Lake, Lake Wilks e Crater Lake, il complesso montuoso si riflette ripetutamente e da ogni prospettiva possibile, con le sue punte aguzze duplicate nelle acque opalescenti.

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Non è un caso che il parco nazionale di Mount Cradle-Lake Saint Claire National Park rientri nella cerchia esclusiva delle “World Heritage Wilderness Area”. Il parco è uno dei luoghi più speciali della Tasmania, dove gli antichi pini incorniciano i laghi glaciali e i ruscelli scendono a picco dalle aspre vette. Sono quattro le vette del complesso montagnoso, quasi a voler continuamente sfidare l’alpinista insistente, ma la più famosa e impervia rimane quella del Cradle con 1.545 metri.

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Le punte aguzze del Monte Cradle formano una conca, da cui deriva il suo nome: “cradle” significa culla in inglese.

Giorno 1:

La prima giornata trascorsa nel parco ce la siamo giocata con un trekking improvvisato di circa 9 km per fuggire le orde di turisti, il Pencil Pine King Billy. Il sentiero, che parte dal cuore del parco percorrendo una passerella di legno dolcemente chiamata “Enchanted Walk”, inizia saltando il tronco di albero caduto e coperto di muschio che nasconde la traccia; e questa è solo una delle numerose gincane tortuose tra alberi, rocce e strapiombi che seguiranno.

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La camminata incanta si trasforma presto in un incubo scivoloso tra la brughiera e le pendici dei rilievi che circondano il Monte Cradle. La pista sembrava non essere mantenuta e in alcuni tratti è stato difficile capire se stessimo percorrendo la strada giusta, perché molte indicazioni erano scomparse o parti del sentiero precipitate sotto il peso degli alberi. Il sentiero prosegue poi lungo il torrente Pencil Pine Creek, ma è molto, molto difficile da distinguere, se non grazie ad alcuni sporadici nastri rosa intorno ai rami degli alberi. La pista si dirige poi lungo il versante di un canyon e richiede una piccola arrampicata. Dopo il canyon, la “strada” continua sulle praterie alpine, più ariose ma coperte di fango e infestate di sanguisughe. In queste aree aperte i contrassegni sono pali posizionati periodicamente; la pista si tuffa dentro e fuori dal bush prima di arrivare finalmente al punto di partenza.

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Una volta lì, abbiamo trascorso una mezz’ora cospargendoci di sale i piedi per liberarci delle sanguisughe, che si contorcevano sotto ogni granello.

Durante questa complessa e disgustosa operazione siamo stati ricompensati dalla visita di un paffuto wombato, che con il suo sederotto cubico e il muso paffuto è immediatamente diventato uno dei miei animali preferiti!

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Giorno 2:

La seconda giornata nel parco è stata dedicata al mio fallimentare tentativo di scalata del Mont Cradle. Il tracciato di 13km, che per noi inizia al Marion’s Lookout, percorre un tratto del famoso trekking Overland Track: è possibile camminare sulla passerella in legno, ammirando i panorami mozzafiato della valle alpina intervallati dalla pupù cubica che il wombat sparge generosamente per marcare il territorio.

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La prima parte dell’ascesa è un sentiero ben segnalato e piacevolmente in salita. Lungo il percorso intravediamo fiori selvatici e cespugli in un’incredibile varietà di toni, dall’arancione al verde petrolio. Ma la strada diventa molto più difficile a pochi metri dalla vetta e include un’arrampicata libera sulle colonne di dolerite che formato la cima, rocce tra le più vecchie del mondo.

Il tempo impiegato per raggiungere la vetta in questa sezione finale è direttamente proporzionale alla tua agilità: può variare da 1 a 2 ore a seconda della capacità di arrampicata. La mia rasenta la goffaggine di Pippo, per cui quando la vetta è stata circondata da nuvole di nebbia che rendevano le rocce sdrucciolevoli, ho miseramente alzato bandiera bianca e come un’echidna mi sono affrettata a ridiscendere tra i soffici cespugli alpini saldamente ancorati a terra.

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L’aspetto paradossale di questo trekking è che ho passato buona parte del tempo trascorso in vetta sperando che l’esperienza finisse presto, invece di godermela. Poche attività ricreative, come capita a volte col trekking, offrono un buon grado di difficoltà fisica unitamente al desiderio di farla finita in fretta, possibilmente 5 minuti fa. Altra unicità del trekking sta nella ripetitività: sì, perché una volta giunti al punto finale, che sia una cima o un punto panoramico, dopo aver già speso buona parte delle proprie energie, lo sforzo si raccoglie tutto nella discesa o nel ritorno.

Hai letto un buon libro? Bene, riposalo sullo scaffale. Sei riuscito a compiere quel difficile trick con lo snowboard? Grande! Ora il gatto delle nevi ti aspetta per tornare a valle.

Conclusioni: il trekking spesso ti coglie affaticato a chilometri a piedi da qualunque comfort, salendo una scalinata di sassi scivolosa o calpestando cubetti di cacca di wombat e sanguisughe. In queste circostanze, assicuratevi di aver a disposizione una coccola calorica al vostro ritorno!

Photo Credits: Andrea Messina

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2 pensieri su “Vallate alpine e pupù di wombat

  1. Ho pensato tanto a te e a Lucy scrivendo questo articolo! E ammetto, non senza un pizzico di ansia da prestazione e da giudizio 😉 😉 peccato che io e Andrea lasceremo l’Australia presto, sarebbe stato bello un trekking insieme!

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